Le terre alte nell’immaginario collettivo

Il seguente articolo è un contributo scritto per la rivista online Sociologicamente e pubblicato sulla stessa in data 5 marzo 2023.

Da luoghi spaventosi a rilievi meravigliosi

Per l’occhio umano, la montagna e i rilievi montuosi in generale non hanno mai avuto fascino. Come racconta lo scrittore inglese Robert McFarlane, prima della seconda metà del XVIII secolo, le alte rocce dalle forme strane e irregolari erano considerate, oltre che estremamente pericolose, anche repellenti, turbatrici dello spirito, desertiche e non paragonabili alla natura domestica, la sola che rispondeva ai canoni del gusto estetico (McFarlane, 2020).

Se l’esplorazione dei mari destò interesse e ammirazione fin dall’antichità, altrettanto non si può dire per l’ambiente montano. Come ci ricorda lo stesso McFarlane, “trecento anni fa rischiare la vita per scalare una montagna sarebbe stato considerato pura follia” (ivi, p. 15).
Quegli spazi così spigolosi e freddi non destavano interesse nella popolazione delle città, la quale non riconosceva nessun tipo di qualità alle terre alte.

La superiorità della civiltà urbana fu a lungo enfatizzata attraverso l’antitesi città/montagna e, di conseguenza, attraverso il confronto tra abitanti delle città e abitanti della montagna. In particolare, le Alpi erano considerate come un limite non appartenente all’Italia o come una barriera naturale in pietra a difesa delle pianure civilizzate. Proprio nell’età moderna, quando la civiltà urbana raggiunse il suo massimo splendore, l’arco alpino costituiva un ammasso di pietra e ghiaccio senza significato e, talvolta, veniva considerato pericoloso: nel Settecento, per esempio, i vescovi di Ginevra impartivano esorcistiche benedizioni ai ghiacciai in avanzata nel corso della cosiddetta “piccola età glaciale”.
Soprattutto durante il periodo rinascimentale, montagna e montanari appartenevano a un mondo differente per il cittadino di pianura. Il vestiario, il comportamento, l’alimentazione e lo stile di vita della “gente di montagna” erano allora incomprensibili, disallineati rispetto al rigore e all’ordine di città.

Qualcosa iniziò a cambiare durante l’età dei Lumi, quando, forte del suo pensiero razionale, logico e matematico, lo scienziato si sentiva in grado di avventurarsi in ogni ramo del sapere, senza paure. Fu allora che la geologia e il naturalismo lo spinsero all’esplorazione dello spazio alpino, rimasto fino ad allora ancora del tutto inesplorato. Significativa è, in tal senso, la prima ascesa al Monte Bianco nel 1786, compiuta da Jacques Balmat e Michel Gabriel Paccard, sollecitati all’impresa dallo scienziato Horace-Bénédict De Saussure, al quale interessavano le possibilità di studio che una vetta simile (4810 m) sapeva offrire, come la pressione barometrica, la temperatura, il comportamento del corpo umano ad alte quote.

Il Monte Bianco, la più poderosa e complessa montagna di tutto l’arco alpino, comparse per la prima volta su una cartina solamente nel Seicento (nonostante già nel Cinquecento Courmayeur fosse frequentata per le miniere d’oro e d’argento prima, per le acque minerali poi). Inizialmente le fu attribuito il nome di Mont Maudit (Montagna Maledetta), cambiato in Mont Blanc in seguito alla Nouvelle Heloïse di Rousseau, manifesto del nuovo gusto per la natura selvaggia che creò interesse per i paesaggi alpini.
Paesaggi che, secondo la categoria estetica introdotta da Edmund Burke nel 1757, divennero eccelsi: lo spettacolo che offrivano le valli alpine procuravano a delightful horror e a terrible joy (Ferrata, 2019).

Evidente è la portata simbolica dell’ascesa al Monte Bianco e dei racconti da essa derivati: tutti poterono rendersi conto che l’alta quota non era infestata da diavoli, che le montagne non erano popolate dalle anime dei trapassati, e che, al contrario, i silenzi azzurrini dei ghiacci, la bianca neve, i verdi boschi e le rocce nude e spigolose sapevano regalare emozioni rare.
Del resto, nel XV Secolo, quando ancora non esistevano né l’estate “turistica”, né tanto meno la stagione dello sci, la maestosa piramide del Cervino si ergeva verso il cielo, forse più bella di come la conosciamo oggi perché ancora non era stata consumata dagli sguardi dei turisti. I valligiani, che amichevolmente la chiamavano Gran Becca, la osservavano ogni mattina, indecisi se amarla o maledirla perché era sì stupenda, ma anche inutile per la loro sopravvivenza quotidiana […]. I miei avi erano sensibili alla magnificenza del loro territorio, se ne prendevano cura e la proteggevano, ma, allo stesso tempo, erano pragmatici, e alle montagne avrebbero preferito delle praterie dove allevare il bestiame, coltivare i campi e cacciare più comodamente (ibidem).

Viandante sul mare di nebbia, 1818, C. D. Friedrich

Se per anni il Cervino e le Alpi erano rimaste sullo sfondo, immobili e taciturne, “mentre le generazioni di montanari si susseguivano” (ibidem), in seguito vi fu una vera e propria trasformazione economica, antropologica e culturale, dopo la quale le terre alte avrebbero perso per sempre i connotati negativi a loro attribuiti, diventando oggetto di interesse per cittadini e sovrani di tutti i regni.

A tale trasformazione contribuì inoltre la diffusione, durante il Romanticismo, di una nuova nozione di bellezza – inizialmente di matrice inglese e tedesca – che faceva largo uso di panorami naturali sterminati e violenti, talvolta toccando l’irreale e il fantastico, definiti “sublimi”. Iconico è il famoso quadro “viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich dipinto nel 1818 dove vi è dipinto un uomo, ritratto di spalle, affacciato su un mare di nebbia che invade un paesaggio montuoso. Dunque, la potenza delle forze naturali non incuteva più solo terrore, ma iniziava a destare curiosità, diventando attraente.

Con il movimento romantico si affermarono anche l’esotismo e il soggettivismo; il primo – temporale o spaziale – rivolgeva il proprio interesse non solo verso mete esotiche, ma anche verso destinazioni lontane dai luoghi di appartenenza; il secondo, scardinava la sola, unica, razionale chiave di lettura della natura per crearne molteplici e approdare alla concezione dell’ambiente naturale come manifestazione oggettiva dei turbamenti umani.
Dunque, come il sentimento personale, essa non sarà più solo addomesticata, ordinata, tranquilla; al contrario, sarà spesso violenta, disordinata, indomabile.

Le cariche emotive attribuite al paesaggio montano

Al paesaggio montano, che più di ogni altro rispondeva a queste caratteristiche, vennero attribuite anche una serie di cariche emotive. Le terre alte acquistarono una valenza emotiva libertaria che le rese mezzo per ottenere e mantenere la libertà, per affermare una nuova individualizzazione, un’emancipazione del singolo individuo dai vincoli sociali tradizionali e dall’intransigenza delle norme e delle sanzioni sociali (Beck-Gernsheim, Beck, 2002) proprie dell’ambiente di città, caratterizzato invece da un accentuato individualismo.

In particolare, tre sono i punti chiave del Romanticismo che più hanno influito sul modo di concepire le terre alte e la loro frequentazione. Prima di tutto, il concetto di sublime: secondo i romantici, l’infinito generava nell’uomo un senso di terrore e impotenza, il sublime, appunto; esso non era tuttavia recepito in modo violento e non reprimeva il soggetto, ma, al contrario, questa stessa incapacità venne tradotta dall’uomo in un piacere indistinto, dove è proprio ciò che spaventa ed è incontrollabile a diventare bello.
In secondo luogo, il concetto indicato con il termine tedesco Sehnsucht (reso in italiano perlopiù con il termine struggimento), quale diretta conseguenza di quanto sperimentato dall’uomo di fronte all’assoluto: un senso di inquietudine e tensione che lo spinge ad addentrarsi proprio in quella dimensione che sembra oltrepassare i limiti conosciuti della realtà. Un altrove ignoto, tanto immaginato dalla mente, ma ancora nascosto agli occhi.
Infine, terzo e ultimo concetto romantico che ha contribuito ad avvicinare l’uomo alle terre alte, è il senso del limite; un limite di cui l’uomo prende coscienza, ma che spesso – proprio per ricercare quel senso del rischio che tanto lo affascina – volontariamente oltrepassa, sfidando la natura.
Tali concezioni romantiche appaiono connesse al senso del rischio odierno. Come ci ricorda McFarlane, era lo stesso De Saussure a sostenere che “correre un rischio porta con sé il proprio compenso, mantiene viva la costante agitazione del cuore” (McFarlane, 2020, p. 68). McFarlane mette in luce come molto spesso in montagna il rischio venga cercato, “corteggiato” (ivi, p. 69). In taluni casi, nota, si paga per averlo.

Se l’estetica del sublime apprezzava il caos, la dismisura, gli sconvolgimenti naturali e le irregolarità, il rischio odierno porta con sé un senso di euforia, un sentimento adrenalinico. E le terre alte – nonostante siano, al giorno d’oggi, decisamente più addomesticate dell’epoca vissuta da De Sassure – con la loro immensità, dominate da leggi della natura che l’uomo non controlla del tutto – rappresentano ancora, agli occhi delle popolazioni urbane, un luogo perfetto dove ricercare queste sensazioni.
Già dalla fine del XIX Secolo, inoltre, l’ascendere le vette figurava nei miti più vari dell’umanità tradizionale come processo di superamento, di integrazione spirituale, di immortalità, di trasformazione della mente e del corpo; durante l’epoca romantica e quella successiva, la montagna diventò “un palcoscenico dove l’io può essere illuminato al meglio” (ivi, p. 81).

Alla luce di tali considerazioni, è possibile definire il cambio di atteggiamento nei confronti delle montagne avvenuto nel corso degli ultimi tre secoli come cambiamento culturale. Come ci ricorda McFarlane, “il modo in cui percepiamo il paesaggio è in gran parte dettato dalla cultura in cui viviamo” (ivi, p. 19).
Un paesaggio non viene mai visto per come è in realtà; ogni soggetto applica, infatti, dei filtri che derivano dalla tradizione culturale da cui proviene e legge a modo proprio lo spazio che lo circonda, sulla base della propria esperienza e memoria personali e del gruppo di cui è parte.
McFarlane parla di “montagna della mente”. In effetti, è possibile parlare di un vero e proprio processo immaginativo che rende il paesaggio montano carico di emozioni, di attributi e qualità attribuite dagli individui che lo guardano. E, conseguentemente, influenza il modo d’agire di tali soggetti sul e nello spazio.
Nelle moderne scienze del territorio si potrebbe parlare di territorializzazione, concetto introdotto per la prima volta da Claude Reffestin nel 1984. Si tratta di un processo di socializzazione della natura stessa che avviene attraverso tre forme di controllo sulla superficie terreste – denominazione, reificazione, strutturazione – e vede l’uomo abitare la natura, conferirle un valore antropologico, trasformarla in territorio. Dunque, l’azione nello spazio della natura diventa azione territoriale che trasforma – prima simbolicamente, poi concretamente – lo spazio stesso. Se da un lato è possibile individuare le caratteristiche di un territorio derivanti da un processo puntuale e storicamente circoscritto del processo di territorializzazione, dall’altro i valori e i significati attribuiti allo spazio territorializzato si accumulano, sommandosi a quelli precedentemente stratificati (Turco, 2010).
Proprio per questo motivo, Magnaghi definisce il territorio come un “soggetto vivente” altamente complesso (2000). Egli non si riferisce al complesso di ecosistemi o alla società presente e al giacimento socioculturale di un determinato luogo, bensì al prodotto dell’interazione, di lunga durata, tra ambiente e insediamento umano. Dunque, il territorio non esiste in natura, non è un oggetto fisico, ma rappresenta l’esito del processo di territorializzazione. Lo stesso Magnaghi nota, inoltre, come il territorio sia inscindibile sia dai suoi supporti materiali che dalle diverse forme di appropriazione che si sono succedute.

Il modo nuovo di guardare all’ambiente montano, affermatosi nel corso dell’Ottocento, destò curiosità nell’animo umano, a tal punto che entro la fine del secolo tutte le vette alpine principali furono scalate (McFarlane, 2020, p. 16), durante quella che è possibile definire come ‘età dell’oro dell’alpinismo’.

L’alpinismo e la nuova accessibilità alla montagna

L’affermazione dell’alpinismo, inizialmente di chiara marca britannica, portò alla reinvenzione dello spazio alpino, trasformandolo in palcoscenico di una nuova pratica sportiva che contribuì ad allargare l’aura di fascino intorno alla montagna, segnando gli albori del turismo moderno.
Durante questa fase, le montagne erano conosciute dagli abitanti delle città attraverso i racconti dei libri degli esploratori ed alpinisti. Una delle assunzioni più ricorrenti del tempo fu quella di montagna-panorama vista da lontano; essa restò però confinata nel mondo dell’estetica descritta dai libri, quasi come la “compensazione di una generazione borghese incapace di aspirare alle altezze se non attraverso un lirismo parolaio” (Evola, p. 86). È oggi da considerarsi in gran parte sorpassata, un semplice residuo del romanticismo ottocentesco.

A metà del secolo, con la nascita del nuovo Stato, le Alpi acquisirono poi anche un’altra valenza, quella di confine della nuova realtà statuale, da marcare e da difendere; sul finire del secolo, invece, il turismo, in particolare inglese, iniziò a solcare un’impronta decisiva. Infatti, già all’epoca venivano organizzati dei viaggi di massa dalla Gran Bretagna verso le Alpi.
Proprio questo spazio – in particolare le Alpi orientali – acquistò un’aura quasi sacrale durante la Grande Guerra, quando nei torrenti e sull’erba scorreva il sangue dei soldati caduti in trincea. Negli anni successivi, in Italia fu il fascismo ad accrescere il significato simbolico della montagna quale scuola di ardimento e di italianità, quale disciplina dei nervi e del corpo, impulso di azione pura e concreta in un ambiente di forze indomabili.
Poi, nel secondo dopoguerra furono i turisti di tutto il mondo a soggiornare nelle località di tutto l’arco alpino. Se prima dell’avvento dell’alpinismo la montagna era un simbolo e conservava una trascendente spiritualità proprio in quanto inaccessibile e inviolata (ivi, p. 88), a mano a mano che le vette vennero conquistate, la distanza che le separava dai centri cittadini andava diminuendo.
Alla base di tale attrazione vi era l’affermarsi di una dicotomia del tutto nuova, e opposta alla precedente, tra natura selvaggia – incarnata dalla montagna e intesa come un ambiente positivo e riumanizzante – e vita cittadina – considerata invece come una condizione di decadenza e di allontanamento dalle radici più autentiche dell’esistenza.
Si trattava di una montagna concepita in termini di naturalismo. Nata dalla “generazione della crisi” (ivi, p. 87), tale concezione derivava da un istinto di rivolta contro la civiltà – divenuta sinonimo di ostinato intellettualismo, meccanica, utilitarismo, conformismo – e portava al bisogno – organico, ma anche psichico – di trovare una forma di anti-città ed anti-cultura. Ciò portò inevitabilmente all’esodo nella natura.

Nell’Ottocento si era affermata una vera e propria élite di alpinisti, mentre i cittadini dei grandi centri urbani guardavano da lontano le bianche vette e conoscevano la montagna attraverso i racconti di chi coraggiosamente l’aveva sfidata e vinta. Nel Novecento, invece, la Alpi si popolarono prima di turisti, cittadini curiosi alla ricerca di ciò che la città o la vacanza al mare non erano in grado offrire, poi, sul finire del Secolo, di nuovi abitanti e imprenditori pronti a cambiare la propria vita.
La possibilità di praticare svariate attività sia nella stagione invernale che in quella estiva rese la dimensione dello sport di montagna carica di valore sociale: divertimento per alcuni, esperienza educativa per altri, lavoro per molti. Dunque, gli sport di montagna costituirono il terreno sul quale iniziarono a costruirsi le fondamenta del turismo alpino.
La varietà paesaggistica, le bellezze culturali e le particolari condizioni climatiche divennero prerequisiti ottimali per l’utilizzo turistico delle Alpi: soggiorni riposanti o energizzanti, esperienze sportive e culturali, divertimento per adulti e bambini resero la vacanza di montagna una valida alternativa a quella di mare.

Si noti come la disponibilità sempre maggiore di diversi tipi di confort, tali da elevare la vacanza alpina al medesimo livello di quella marittima, vada a scontrarsi con l’idea originaria di essenzialità che per anni ha accompagnato le narrazioni di montagna.
Si pensi, per esempio, all’uso di ossigeno supplementare per l’ascesa alpinistica di una vetta molto alta, ai rifugi dotati di confort quali camere singole e bagno privato, ai servizi di taxi-navetta che attraversano i sentieri escursionistici grazie a larghe strade carrozzabili. Un modo di frequentare la montagna che è ormai ibridato con elementi e comodità dell’urbano ai quali risulta difficile rinunciare, talvolta per tutelare la sicurezza dei singoli individui, talvolta per puro capriccio personale.

Nell’ultimo secolo, inoltre, l’ambiente di montagna divenne simbolo di ripresa di un contatto con la natura impossibile da ottenere nelle grandi cittadine di pianura, ma a tutti accessibile. Un contatto che si concretizza, nella maggior parte dei casi, in una relazione indiretta, filtrata da elementi antropici, quali elementi del paesaggio costruiti o modificati dall’uomo.
Come un circolo vizioso, più l’uomo desidera una fusione con la natura e soddisfa tale bisogno, più essa si trasforma. Sia che si tratti di una timida conoscenza fatta di rispetto e prudenza, sia che si tratti di un rapporto più violento e severo, la relazione tra uomo e montagna comporta sempre un cambiamento, talvolta quasi impercettibile, di quest’ultima.

Una “trasformazione silenziosa”, come la chiamerebbe il filosofo Jullien: modificazioni che si producono apertamente davanti agli individui, ma in maniera così continua a fluida che essi non le avvertono, se non sotto la risonanza di un evento improvviso ed evidente (Jullien, 2010).
Le Alpi acquistano una valenza emotiva di tipo sociale, legata all’appartenenza e all’integrazione sociale: più un luogo viene fotografato e condiviso, più cresce la sua carica attrattiva, ma soprattutto la voglia di dimostrare di averlo visitato. Si vengono così a creare dei paesaggi ‘iconici’ (Lacasella, 2021).

Da circa due anni, infine, questa forte attrazione nei confronti delle Alpi cresce ulteriormente, stavolta a seguito di un cambiamento – imposto – degli stili di vita degli individui: l’arrivo della pandemia di Covid-19 rende ancora più evidente il bisogno di evasione dalla città già sovraffollata, inquinata, pericolosa. Le terre alte, con i loro spazi aperti e la l’aria pulita, diventano un territorio sicuro per sfuggire al virus e migliorare la propria qualità di vita, per salvare il proprio futuro dal soffocamento urbano.
Una montagna al servizio dell’uomo, domabile, che non ha più nulla da insegnargli, ma molto da offrirgli. Nelle Alpi si ricerca oggi l’opposto di ciò che si ha in città, ma senza rinunciare alla connessione wi-fi, alla rete telefonica e altri confort oggi possibili anche ad alte quote.
In questo modo, le grandi differenze con la città vanno a poco a poco ad affievolirsi e i contorni della dimensione urbana e di quella montana sbiadiscono, finendo per sovrapporsi.

Se nel 1827, John Murray, autore di guide per viaggiatore alpini, dormendo a duemila metri di quota raccontò di “stelle innumerevoli che brillavano di una luce così vivida da non potersi neppure paragonare a ciò che si vede al livello del mare nella densa e umida atmosfera della Gran Bretagna” (McFarlane, 2020, p. 213), tanto da poter parlare di un altro cielo e di un’altra terra, al giorno d’oggi le stelle sono scomparse anche dai cieli di alcuni paesaggi alpini.
Proprio McFarlane sottolinea come vivere sempre e costantemente tra case e strade generi un senso di clausura che con il tempo diventa una “forzata miopia” (McFarlane, 2019, p. 78). La continuità spaziale è difficile da concepire per l’uomo di città, abituato a un’espandibilità limitata e delimitata. Tuttavia, con la diffusione degli impianti di risalita e delle funivie, con il moltiplicarsi di chalets di nuova costruzione, con la frequentazione di massa dei rilievi, anche lo spazio montano così immensamente grande va riducendosi. 
McFarlane parla anche di una “ritirata dal reale”; la vita urbana cambia le percezioni umane, plasma il modo di sentire il mondo, dettando parametri differenti da quelli naturali. Nella città, dove tutto è “a misura d’uomo” e la scansione del tempo scandita dalle esigenze antropiche, non rimane spazio per i ritmi della natura.

Dunque, in un paesaggio montano in costante mutamento, sempre più affollato, illuminato e regolato, sempre più simile alla caotica città, ciò che diventa importante è la capacità di saper cogliere gli spunti necessari per emozionarsi; saper ricercare un ‘selvaggio’ ormai nascosto dalla struttura antropica.
E tutti possono aspirare a tale emozione. Lo stesso McFarlane ricorda come, sostando nei luoghi selvaggi, chiunque avrà provato, almeno una volta, “una fugace, cocente percezione del disinteresse del mondo” (ivi, p. 153).

Bibliografia
  • McFarlane, 2020, Montagne della mente. Storia di una passione, Einaudi, Torino.
  • Brevini, F., 2012, La leggenda della cima cancellata dalle mappe, in Cultura, Corriere della Sera, Milano.
  • Beck-Gernsheim E., Beck U., 2002, Individualization. Institutionalized Individualism and its Social and Political Conseguences, Sage, London.
  • Turco A., 2010, Configurazioni della territorialità, Franco Angeli, Milano.
  • Evola J., 2003, Meditazioni delle vette, Edizioni Mediterranee, Roma.
  • Jullien F., 2010, Le trasformazioni silenziose, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Lacasella P., (a cura di), ottobre 2020, Il versante nascosto, pubblicazione online.